Nov 21, 2017 | AGOPUNTURA, IPNOSI, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Psicofarmaci a tutto spiano e a tutte le età sono prescritti ogni giorno per affrontare dal più lieve disagio fino a quadri clinici importanti. Vediamo come il trend è riuscito a mettere radici e crescere negli ultimi anni, non solo oltreoceano e non senza conseguenze. A fare il punto della situazione ci hanno pensato Alberto Caputo, psichiatra e psicoterapeuta e Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta con il libro “Psicopillole – Per un uso etico e strategico dei farmaci“, edito da Ponte alle Grazie (256 pp, 18 euro).
Psicofarmaci: boom di prescrizioni e incassi
Tra il 1999 e 2013 le prescrizioni di psicofarmaci sono duplicate negli Usa, la tendenza europea è analoga: si muore di più per overdose da farmaci psichiatrici che non per eroina.
“L’Italia è la quarta in Europa seconda l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, per la spesa relativa all’acquisto di psicofarmaci e sempre secondo Aifa sono 12 milioni gli italiani che assumono psicofarmaci” dichiara Roberta Milanese, ricercatore associato del Centro di Terapia Strategica di Arezzo e docente della Scuola di specializzazione in Psicologia Breve Strategica.
“La spesa complessiva è di 3 miliardi e 300 milioni di euro l’anno. Gli psicofarmaci sono la maggior fonte di entrata per case farmaceutiche. Nel mondo, per gli psicofarmaci si spendono 900 miliardi di dollari l’anno: metà negli Usa, un quarto in Europa e un quarto nel resto del mondo”.
Altro dato che fa riflettere: mezzo milione di persone sopra i 65 anni, muore ogni anno negli Stati Uniti a causa degli psicofarmaci.
La corsa a chiedere e prescrivere psicofarmaci
“Diciamo che possiamo individuare una tendenza a prescrivere e una tendenza a usare troppo i farmaci di questo tipo” spiega Albero Caputo. “Spesso e volentieri il farmaco rappresenta una soluzione, una via breve che però non risolve il problema“.
Esempio: da una parte non dormi e il medico ti dà subito qualcosa per dormire oppure sei triste e chiedi un farmaco e il medico te lo prescrive. Insomma, c’è sia facilità alla richiesta dello psicofarmaco sia alla prescrizione da parte del medico. Come uscirne? Usare il farmaco in modo etico dal punto del prescrittore, e da un punto di vista strategico da parte del paziente. Un buon approccio psicoterapico aiuta a cambiare la propria vita ed affrontare i problemi. E nelle forme più lievi di depressione una buona psicoterapia funziona meglio addirittura di un farmaco.
Nelle depressioni lieve e moderate la psicoterapia è altrettanto efficace e può facilitare la cura. E molti studi dimostrano che in questi casi funziona molto bene l’esercizio fisico. Nella reazione acuta da stress (es dopo incidente stradale che non ti fa dormire), invece, il farmaco può aiutare, ma per brevissimi periodi. In generale gli psicofarmaci è meglio prenderli per il minor tempo possibile.
Pillola della felicità e criteri di diagnosi sempre più estremi
La ricerca della pillola per la felicità, invece, è a tutti gli effetti un fenomeno sociale. Una richiesta in qualche modo supportata dalla bibbia della psichiatria, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) sempre più rapido e frettoloso, per esempio, nel favorire l’equazione sono triste = depresso = malato.
Vediamo meglio nel dettaglio. “Se l’umore è depresso, c’è mancanza di sonno, di appetito e altri sintomi, nel DSM5 (2013), l’ultima versione di questo manuale, dopo 15 giorni si è dichiarati malati” spiega Milanese. Infatti bastano due settimane per essere classificati clinicamente depressi, mentre nella versione 1980 del Manuale (DSMIII) questi sintomi dovevano esserepresenti per un anno prima di poter essere appunto dichiarati clinicamente depressi. Nel DSM IV (1994) erano sufficienti due mesi”.
Risultato: nel 2015 oltre 350 milioni di persone nel mondo sono state diagnosticate depresse di cui 4,5 milioni in Italia. Secondo l’Oms nel 2020 la depressione sarà la malattia mentale più diffusa. Ovviamente se i criteri vengono cambiati, così come è successo, per esempio, in caso di lutto: 15 giorni sono pochi per superare l’evento ed è facile ritrovarsi tutti depressi.
“Se teniamo conto che il mondo assicurativo e medico devono basarsi su criteri condivisi e si basa su queste categorie che sono state ampliate, è facile immaginare la ricaduta di questa classificazione.” aggiunge Milanese.
Bambini e adolescenti: in aumento del 40% l’uso di psicofarmaci
L’Aifa nel 2017 ha ripetuto che farmaci per bambini adolescenti sono pericolosi e il 26 aprile 2017 il Parlamento Europeo ha aperto un’interrogazione parlamentare su questo tema. “In Europa tra 2005 e 2012 l’uso di antidepressivi per bambini e adolescenti è aumento del 40 per cento nonostante siano stati ritenuti inefficaci e pericolosi.” dichiara Milanese.
L’indagine dell’Istituto di ricerca farmacologica Mario Negri di Milano ha rilevato che sono circa 400 mila i bambini e adolescenti assistiti ogni anno per disturbi mentali in Italia dal servizio sanitario nazionale e tra i 20 e 30mila quelli che ricevono psicofarmaci. Lo studio è del 2016 e questi dati escludono chi si rivolge a medici privati quindi c’è un sommerso notevole. E non è tutto. Gli antidrepressivi sono risultati non efficaci su bambini e adolescenti secondo una ricerca pubblica su Lancet nel 2016 e condotta dall’Università di Oxford. E ancora, nel 2016 un’analisi pubblicata sul British Medical Journal ha dimostrato che il rischio suicidio raddoppia nei bambini e adolescenti che assumono antidepressivi.
La stessa cautela è necessario per gli anziani, che possono avere carenze di tipo metaboliche, sono “politrattati”, cioè prendono tanti altri farmaci, quindi si può creare interazione. Nell’anziano e nel giovane le regole sono “start low, go slow“, parti basso e fai delle variazioni molto lentamente.
Ma cos’è uno psicofarmaco?
“E’ un farmaco che ha un utilità specifica sul sistema nervoso centrale – spiega Caputo – Di solito esiste un recettore specifico nel cervello su cui il farmaco fa effetto, molto mirato”. In pratica questi farmaci hanno il compito di influenzare l’attività psichica sia normale sia patologica. “Il problema è che oltre ad andare sui recettori interessati, sono farmaci “sporchi” che agiscono su molti altri ricettori, è per questo motivo che si hanno effetti collaterali.” continua Caputo. Inoltre il problema è che il sistema centrale è molto complesso quindi i neuroni possono avere recettori di diversi tipi e possono essere anche diffusi anche in tutto il sistema.
Per dirla con una metafora questi farmaci sono come una pioggia che bagna fiori diversi e così si possono avere tanti effetti collaterali sia centrali sia periferici. “Ad esempio, gli antidepressivi tricicli usati in passato potevano portare alla morte se presi ad alte dosi, perché ad alte dosi agiscono sul cuore: potevano dare un blocco cardiaco – spiega Caputo – Una volta erano gli unici che avevamo, oggi sono superati.”
Gli effetti collaterali
Da una parte i farmaci devono essere prescritti con una competenza altissima, dall’altra, di solito, le persone sottovalutano gli effetti collaterali o di accumulo ( es. nel caso dello benzodiazepine, se vengo prese per troppo tempo e in modo eccessivo non si smaltiscono facilmente). “Oppure esiste l’effetto additivo: quando gli psicofarmaci vengono mescolati, ad esempio, con alcol o droghe o senza saperlo con altri farmaci. Per esempio l’antistaminico più le benzodiazepine creano un effetto additivo, che ovviamente non fa bene né a breve né a lungo termine.” spiega Caputo.
Nuovi farmaci hanno preso il posto di altri, e nel tempo gli effetti collaterali sono cambiati, ma non scomparsi. “In passato, per esempio, venivano usati farmaci antipsicotici che magari davano certi effetti collaterali, come i movimenti involontari – aggiunge Caputo – I nuovi farmaci, invece, danno problemi metabolici e i pazienti ingrassano o si ammalano di diabete.”
Uno psicofarmaco si può prendere solo con la ricetta medica? Chi lo può prescrivere?
Gli psicofarmaci richiedono tutti la ricetta medica, qualunque medico la può prescrivere mentre lo psicologo non può prescrivere farmaci. “Un’indicazione più specifica arriva dallo specialista psichiatra e neurologo, ma anche il medico di base può intervenire in merito e dal suo punto di vista dovrebbe valutare l’entità del disturbo e decidere se trattarlo in modo autonomo o inviare allo specialista pubblico o privato.” chiarisce Caputo.
Il peso dell’informazione non corretta
Va considerato anche la presenza radicata di un’informazione sui disturbi psicologici che non è sempre corrispondente al vero. Tutti i disturbi sono impropriamente assimilati a malattie del cervello e ancora resistono teorie obsolete, come l’ipotesi di una carenza di serotonina come causa nella depressione, che sono state ormai smentite dalla ricerca medica. “E’ chiaro che se al grande pubblico passa l’idea che ogni disturbo sia legato a uno squilibrio neourochimico dei neutrasmettitori la soluzione non potrà che essere uno psicofarmaco, ma se consideriamo che moltissimi disturbi sono di natura psichica, emotiva, relazionale la soluzione andrà cercata in interventi di tipo psicoterapeutico come nel caso dei disturbi d’ansia, alimentari o di difficoltà relazione.” spiega Milanese.
Quando gli psicofarmaci sono necessari?
“Tendenzialmente andrebbero prescritti nelle malattie psichiche in cui si presume che ci sia una base biologica, per esempio, le psicosi, i disturbi come schizofrenia, disturbo delirante, il disturbo bipolare e la depressione grave con sintomi psicotici – spiega Caputo – In questi casi c’è un’indicazione, i farmaci offrono non cura ma sollievo dai sintomi, un possibile riequilibrio ed eventualmente una protezione da eventuali ricadute, per esempio nel disturbo bipolare.”
Si tratta infatti di disturbi che richiedono frequenti interventi e ricoveri ricorrenti e la prognosi nel lungo periodo può non essere buona. In questo caso lo psicofarmaco è la parte centrale della cura, è ciò che permette altri importanti interventi di tipo psicoterapeutica, psicosociale e riabilitativo. In certi casi l’uso può essere cronico altri volte prevede la sospensione, dopo un tempo congruo di somministrazione.
E quando è meglio ricorrere alla psicoterapia
Nei disturbi da ansia, attacco panico, ossessivo compulsivo, ipocondria, fobie, disturbi alimentari, anoressia, bulimia in cui la terapia elettiva è la psicoterapia i farmaci possono ostacolare il processo di guarigione.
“Ad esempio, nel caso dell’ansia il paziente impara ad appoggiarsi come a una stampella allo psicofarmaco, ma non attiva le risorse per superare la paura che è alla base del disturbo, quindi abbassa ansia ma non supera paura.” spiega Milanese. Solo la psicoterapia può guarire, perché il farmaco può gestire ma non risolve e anzi più delle volte complica, e questo è comprovato da dati di ricerche scientifiche, raccolti nel libro “Psicopillole”.
E’ stato dimostrato anche dalle neuroscienze, e in particolare da Joseph Ledoux, neuroscienziato autore del libro “Ansia”, che il farmaco può aiutare a gestire i sintomi di un disturbo ma la guarigione, cioè la totale risoluzione del disturbo, può essere ottenuta solo tramite la psicoterapia.
Questo perché i veri cambiamenti del cervello avvengono grazie a esperienze e apprendimento che nessun farmaco ci può dare. Ciò dimostra che se vogliamo veri cambiamenti, questi devono essere di natura neuroplastica e vengono favoriti dagli interventi di psicoterapia. “Per esempio, se io ho paura di andare in autostrada, se prendo un farmaco mi si abbassa la paura ma il problema non si risolve. – spiega Milanese – Se voglio guarire mi serve una psicoterapia che lavori sulla paura, così da modificare la mia percezione della paura. E favorire i cambiamenti neuroplastici di cui parla Ledoux”.
Angela Pucchetti da Business Insider Italia
https://it.businessinsider.com/
L’invasione degli psicofarmaci: si muore più di antidrepressivi & Co che di eroina
Gen 11, 2016 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, IPNOSI, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Cosa significa somatizzazione? Parliamo di somatizzazione quando i nostri organi assorbono l’emozione negativa non elaborata. Quindi non è altro che lo spostamento dei sintomi psichici sul corpo. L’energia emozionale, invece di essere percepita e vissuta, viene deviata su di un organo o apparato. L’organo risente con modalità diverse a queste sollecitazioni arrivando a variazioni della sua funzione come avviene nelle reazioni psicosomatiche fino ad una vera e propria alterazione della sua struttura e quindi alla malattia, come nelle vere e proprie malattie psicosomatiche.
Le difese contro il distress ( stress negativo ) si manifestano a vari livelli. Il primo stato è l’emozione ed il pensiero; il secondo sono le reazioni corporee scatenate dal sistema neurovegetativo ed il terzo ed ultimo stato le alterazioni del sistema endocrino ed immunitario.
Quindi, se una persona vive una situazione di distress giornaliero, innesca per primo il suo filtro emotivo e cognitivo che si manifesta con disperazione, pianto, richiesta d’aiuto ecc. Contemporaneamente ragiona sulla possibile via di d’uscita che non viene trovata, per paura, insicurezza ecc.. A questo punto si innesca il filtro neurovegetativo. L’individuo comincia a manifestare disturbi psicosomatici come aritmie cardiache, pressione alta, disturbi addominali ecc. Tutto questo dovrebbe portare a prendere una decisione.
Ma nulla viene modificato. Se il tempo di sovraccarico perdura troppo il sistema neurovegetativo arriva al suo esaurimento e quindi subentra il terzo stadio che è quello immunitario dove la persona arriva a manifestare vere e proprie malattie psicosomatiche coma la psoriasi, le malattie autoimmunitarie (tiroiditi,diabete,artite reumatoide ecc.).
Malessere significa “cattiva vita”. L’individuio vorrebbe andare in una direzione ed invece ne segue un’altra; vorrebbe stare fermo ed invece corre; vorrebbe urlare e ribellarsi invece tace ed abbassa la testa. Questa “mala vita” diventa lacerante ed innesca un conflitto che blocca. L’enorme carico non risolto trova attraverso l’espressione del corpo un modo per manifestare il disagio. Esprime attraverso i sintomi il malessere che altrimenti resterebbbe muto.
Può fare questo scegliendo un organo detto “organo bersaglio”: la pelle, l’intestino, il cuore, il fegato, i polmoni ecc. L’organo bersaglio viene selezionato in base a due fattori: la debolezza ed il simbolo. Spesso viene scelto l’organo più sensibile che è geneticamente predisposto o che ha già subito attacchi nel corso della vita, ma viene anche scelto l’organo che rappresenta simbolicamente la funzione della persona dove alberga il trauma stressogeno.
L’organo come simbolo può essere descritto come una finestra aperta sulla dimensione profonda della vita psichica. Si possono dividere gli organi in tre categorie.
Organi Recettivi: ne fanno parte l’apparato digerente e respiratorio che prendono cibo ed aria dall’esterno e poi restituiscono le scorie. Ogni volta che ci troviamo a valutare segnali su questi organi si può pensare ad un problema legato a ciò che l’individuo ha mangiato o respirato, ossia ha dovuto accettare dai componenti della sua vita familiare o sociale. Qui ci orientiamo su problematiche legate alle relazioni
Organi Discriminativi: ne fanno parte l’apparato nervoso, cutaneo ed immunitario, che discriminano le cose buone da quelle cattive, selezionano , riconoscono ciò che è proprio. Un disturbo su questi apparati può far pensare ad una problematica legata alla valutazione di cosa tenere e cosa lasciare , rispetto a quello che giunge da fuori, dal mondo delle relazioni sociali. Qui ci orientiamo su problemi legati all’identità.
Organi Operativi: ne fanno parte l’apparato osseo e tendineo e l’apparato muscolare. Tali apparati servono a muoversi e a raggiungere obiettivi. Ogni volta che ci troviamo di fronte a disturbi di questi sistemi possiamo considerare un conflitto verso la dimensione di operare in modo concreto. Ci orientiamo su problemi legati alle realizzazioni.
I disturbi fisici necessitano cure e controlli periodici dato che sono cronici. In contemporanea si deve prendere cura dell’aspetto depressivo che scatena la somatizzazione. Nella somatizzazione è contenuto un conflitto che lacera: è importante trovarlo, andando a ritroso nella situazione che ha scatenato i sintomi.
Perché si possa parlare di vero e proprio disturbo di somatizzazione, secondo la definizione del DSM, i sintomi devono comprendere almeno 4 che riguardano il dolore, due gastrointestinali, uno sessuale e un sintomo pseudoneurologico (es. vertigine). Per tutti questi sintomi fisici e no si può trovare una spiegazione medica, un’origine fisiologica del problema. Tutto è da inquadrare nell’ambito della sfera psichica del paziente. A volte la somatizzazione è accompagnata da sintomi di ansia e depressione, sia endogena che reattiva.
Attraverso la metodica Vega test expert plus è possibile determinare ed affrontare i sintomi che si presentano sia sul piano fisico, determinando organo od apparato in sovraccarico, sia a livello emozionale per valutare causa più profonda che affonda le radici nel vissuto del paziente.
Dott. Mauro Piccini
Mag 28, 2015 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, IPNOSI, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Parlare di “attacco di panico” vuol dire affrontare lo spettro della dissoluzione, della frantumazione della propria identità, delle certezze e delle difese che fino a quel momento hanno sorretto l’individuo e gli hanno permesso di mantenersi in un delicato equilibrio tra angosce e sicurezze. L’attacco di panico è una esperienza acuta e improvvisa di forte angoscia che, nonostante la natura transitoria, produce sensazioni intense, incombenti e dolorose. Il panico evidenzia lo stretto rapporto tra mente e corpo. È quest’ultimo a reagire, ad urlare con forza le proprie tragiche paure. Lo fa attraverso una sintomatologia fisica caratterizzata da senso di soffocamento, tachicardia, intensa sudorazione spesso associata a sensazioni di freddo, vertigini, tremore, dolore o fastidio al petto, nausea.
Sembra che oggi, nella nostra società ‘liquida’, il corpo abbia subito un’altra – l’ennesima – rimozione, sia stato nuovamente ‘inscatolato’ e reso ostaggio di logiche di consumo dove si afferma sempre più l’equivalenza corpo = merce. Non è un caso allora se oggi assistiamo a problematiche in cui il corpo ed il corporeo si fanno contenitore ed ultimo ricettacolo di quelle istanze esistentive negate, respinte e forcluse a livello psichico. (Fernando Maddalena)
La nostra esistenza si delinea all’interno di una matrice culturale di riferimento, con le sue pressioni e le sue aspettative. L’essere umano è da subito immerso in un sistema di relazioni, attraverso le quali struttura il proprio senso di sé e la sua sicurezza di base. Le figure di riferimento genitoriali, in questo contesto, sono le primissime forme di interazione e confronto con le quali l’individuo si relaziona. Dall’incontro e dallo scontro con le aspettative dell’esterno vengono ridefinite, e spesso stravolte, le caratteristiche intrinseche dell’individuo, in una continua negoziazione tra bisogni di sicurezza ed accudimento e necessità di autorealizzazione, libertà, autenticità ed indipendenza.
L’individuo sofferente, è infine costretto da più fronti a ricorrere alla fantasia per sentirsi intero, per sperimentare un sé solo in apparenza coeso, abile a fronteggiare le difficoltà ambientali, costruisce una sua immagine idealizzata. Questa costruzione fittizia è qualcosa di molto lontano dalla dimensione reale, ma comunque utile all’individuo per sopravvivere all’angoscia di base che minaccia il senso profondo dell’esistere. La caratteristica peculiare della immagine idealizzata è quella della staticità, per cui è quasi impossibile per il soggetto tendere al cambiamento e men che meno alla messa in discussione delle proprie aree grigie. Essa è una immagine fissa da idolatrare e non un ideale da perseguire con innumerevoli sforzi.
“Gli ideali genuini conducono all’umiltà, l’immagine idealizzata all’arroganza” scrive Karen Horney.
La funzione fondamentale dell’immagine idealizzata è dunque quella di sostituire alla fiducia di sé una fiducia fittizia che porta il soggetto alla dipendenza dalle richieste esterne, piuttosto che dalla sana attitudine all’autorealizzazione spontanea e creativa, che si esplicita nella tendenza a cercare di governare la propria vita. In questo contesto il mondo è visto come minaccioso e ostile e l’immagine ideale trae da questa visione maggiore linfa vitale per attecchire e svilupparsi. Quando il mondo esterno viene percepito come eccessivamente ostile, foriero di esperienze di abbandono e rifiuto, è necessario adattarvisi in maniera coatta, rigida ed inautentica. È questo il preludio per la formazione di strutture nevrotiche cristallizzate, schemi di relazione disfunzionali ed impoveriti, immagini di sé in relazione all’altro poco negoziabili e ridefinibili. Winnicott, Karen Horney ed altri autori parlano di “Falso Sé” ad indicare una costruzione rigida che imbriglia la personalità all’interno di schemi predefiniti, limita la sperimentazione e la scoperta, uccide i desideri reali e le aspirazioni, esaspera una forma di adattamento all’ambiente per nulla creativo, nel quale l’universo emotivo è impoverito, ingabbiato e lontano dalla sua reale possibilità di espressione vitale.
La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale”, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. (Paolo Roccato)
La psicoanalisi contemporanea vede l’attacco di panico come una espressione vitale di ciò che ancora rimane di autentico nell’individuo. Una espressione del “Vero Sé”, intrappolato e ferito, ma non ancora sconfitto. Può sembrare paradossale, ma è assolutamente importante leggere l’esperienza del terror panico come un tentativo disperato e certamente destabilizzante per urlare con forza il proprio disagio, per riconnettersi con le parti vitali presenti in dentro di sé. La crisi di panico mette l’individuo di fronte al fallimento della struttura difensiva, evidenzia cioè una fondamentale fragilità del Sé in termini di non acquisizione di uno stabile senso di identità soggettiva…
Di Fabio Masciullo
Mar 17, 2015 | IPNOSI, PILLOLE DI RIFLESSIONE
“Da tale vuoto assoluto… sboccia meravigliosamente l’azione.”
(Da “Lo zen e il tiro con l’arco”)
«Gli uomini hanno paura di abbandonare le loro menti, perché temono di precipitare nel vuoto senza potersi arrestare. Non sanno che il vuoto non è veramente vuoto, perché è il regno della Via autentica.» (Huang-po)
«Ci sono due tipi di vuoto. Il vuoto che cerco io è fatto di buio, di nulla, è una dimensione dove non ci sono pensieri. Se, per esempio, mi trovo a dover prendere una decisione, chiudo gli occhi e cerco il vuoto. (…) Poi c’è il vuoto che viene da sé, spontaneamente: e questa è un’ottima cosa! Per esempio quello dei bambini che si distraggono molto, che si incantano; oppure quello dal quale, silenziosamente, senza chiedere il tuo parere, senza pensieri, si forma incessantemente la persona che sei. Una sorgente sconosciuta che sta realizzando te, sta facendo il tuo essere come va fatto, e per la quale la tua opinione conta meno di niente. (…) Ecco a cosa serve il vuoto: a ricordarti che non sei tu il protagonista, che c’è qualcosa che ti sta creando e sa cosa fare, quando piangere, quando ridere, quando fare l’amore, quando irritarsi…E’ chiaro che non ha modelli, segue un suo stile, cos’altro dovrebbe fare?
Mentre tu insisti a mettere paletti: vado bene, non vado bene, sono giusto, sono sbagliato, ieri ho fatto così, dovevo fare diversamente, e poi ho avuto un’infanzia difficile, mi maltrattavano…Ma così chiedi al tuo artefice di rispettare una serie di codici che non sono i suoi: sarebbe invece un’ottima cosa lasciar perdere tutto e affidarsi totalmente al vuoto. (…) Come scrive Plutarco
“La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come la legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda”
(…) Quanto più vuoto realizziamo in noi, tanto più sapere innato attingiamo.
L’operazione da fare quando stiamo male è molto semplice: basta ricordarsi che c’è un luogo segreto dentro di noi, il nostro spazio vuoto. In quel silenzio invisibile che ci abita, là dove non ci conosciamo, c’è la nostra essenza e assieme la guarigione da ogni disagio. Perché siamo, principalmente, proprio ciò che non vediamo di noi stessi. In quel silenzio rarefatto e invisibile che abita ognuno di noi c’è la prevenzione, la cura, la soluzione dei nostri disagi.
(…) Nascondersi è annullarsi, prendere le distanze dal conosciuto, disidentificarsi.
Nascondersi è curarsi, rigenerarsi, lasciar fare al Sé. Non c’è seme nell’universo che non si occulti per creare la vita di una pianta, di un animale, di un uomo. Nascondersi è la ricetta di tutte le ricette. Qualsiasi cosa accada, qualsiasi problema ti affligga, tu nasconditi…e rifugiati nel vuoto. (…) Dio si occulta e, quando noi immaginiamo uno spazio vuoto, misterioso e nascosto, le forze cosmiche sono più che mai al nostro fianco. (…)
Ogni tanto faremmo bene a chiederci “Quanto «vuoto» c’è stato nella mia giornata?” (…)
I miei pazienti sono sulla strada giusta quando non cercano di risolvere quelli che chiamano “i loro problemi”.
“Non devo salvare il mio matrimonio” oppure “non devo cambiare vita” sono alcune delle frasi che permettono all’anima di compiere i suoi prodigi, di produrre i suoi effetti terapeutici. Il vuoto ha più poteri di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi farmaco, di ogni sforzo di volontà.
“Secondo la Kabbalah, il fondamento che sostiene tutta l’esistenza è l’Ain, il Nulla metafisico. Uno dei versi biblici che giustifica questa affermazione è (Giobbe 26,7): “Tolè aretz al blimah”, “sospende la terra sul Nulla”. (Nadav Crivelli)
(…) Il vuoto ricorda all’anima il suo navigare nel Senza Tempo. (…)
Certamente non ce la puoi fare se pensi di avere un problema irrisolvibile, se la prima cosa che fai è chiamare qualcuno per lamentarti, oppure se cominci a rimpiangere il passato, a pensare a come stavi meglio allora, o a considerare come altri hanno affrontato quel problema; non ce la puoi fare così…! Bisogna, giorno dopo giorno, procedere come esseri sconosciuti a se stessi e la vita aprirà strade nuove, offrirà nuove soluzioni: ma spesso non ce ne si accorge, perché la mente è troppo centrata sull’identità consueta, e non vede. (…)
Se esiste un principio che crea il mondo, lo crea nascondendosi. (…) Come scrive Eraclito
“L’intima natura delle cose ama nascondersi”.
Esattamente il contrario di quello che facciamo quando siamo in pena, quando corriamo da qualche amico o lo chiamiamo per raccontargli i nostri problemi e farci compatire. Così facendo l’invisibile non può aiutarci, perché ogni volta che parliamo di un problema a qualcuno, lo rinforziamo. Le parole aumentano il disagio. Il vuoto guarisce. (…)
Come il seme si nasconde nella terra per creare le piante, come l’uovo fecondato è al riparo nell’utero, quando ci rifugiamo in noi stessi entriamo nell’uovo cosmico, come dicevano gli alchimisti. E se le cose non si risolvono ancora, allora vuol dire che ci abbiamo pensato troppo, che abbiamo portato con noi, lì dentro, troppo della nostra identità. Significa che, per noi stessi, siamo diventati una zavorra da cui liberarsi in fretta.
“Secondo il pensiero Kabbalistico il Nulla divino (da non confondersi col nulla della filosofia esistenzialista) è superiore all’Essere Rivelato. Ciò che “non conosciamo” di Dio è sempre maggiore, più importante e attraente di ciò che “conosciamo”.” (Nadav Crivelli)
E’ importante, durante la giornata, anche quando siamo in mezzo agli altri, percepire il nostro lato “vuoto”, che significa essere presenti senza avere niente da dire né a sé né agli altri.»
(Raffaele Morelli – Curarsi senza medicine – Mondadori, p.55-66)
”La malattia è la dolorosa testimonianza di qualche conflitto in atto nel corpo e nell’anima. io cerco di scoprire che cosa i miei pazienti stiano nascondendo a se stessi; perciò, quando si rivolgono a me, mi limito al ruolo dell’ascoltatore. Faccio il vuoto nella mia mente, la rendo cioè ricettiva. Devo liberarmi di ogni preconcetto, evitare di dare giudizi sullo stato morale o spirituale che essi mi svelano.”
(C.G.Jung – Da un intervista del New York Times a Jung, fatta nel Settembre 1912, in cui egli parla della psicologia dell’americano.)
“Man mano che conosco i miei sogni, conosco meglio il mio mondo interno, divento amico dei miei sogni. In altre parole la profonda connessione con l’inconscio porta nuovamente ad un senso dell’anima, all’esperienza di un vuoto interiore, un luogo dove i significati sono a casa” (James Hillman)
«Va col vuoto tra le mani, poiché questo è tutto. Questo è il mio dono. Se riesci a portare il vuoto tra le tue mani, allora ogni cosa diventa possibile. Non portarti dietro i tuoi pensieri, la tua conoscenza, non portarti dietro niente di ciò che riempie il secchio, e che non è altro che acqua, perché altrimenti guarderai sempre e solo il riflesso, e nient’altro. Nella ricchezza, nei beni materiali, nella casa, nell’automobile, nel prestigio, tu non vedrai che il riflesso della luna piena nell’acqua del secchio, mentre la luna vera è li, in alto, che ti aspetta da sempre. Lascia cadere il secchio, cosi che l’acqua sfugga via, e con essa la luna. Solo questo ti permetterà di alzare lo sguardo e vedere la vera luna nel cielo; ma prima devi avere conosciuto il sapore del vuoto, devi lasciar cadere il secchio della tua mente, dei tuoi pensieri: non più acqua, né luna. Il vuoto nelle mani» (Jung)
«Talvolta il vuoto non è assenza, ma piuttosto lunga gestazione.Per i parametri dell’Io la gestazione è sempre troppo lunga. Ma per i parametri dell’anima, i tempi dell’attesa e dell’elaborazione interiore che precede l’evidenza esteriore sono sempre quelli che devono essere.» (Clarissa Pinkola Estés)
«Vuoto qui, Vuoto là,
ma l’infinito universo
è sempre davanti ai tuoi occhi
Infinitamente grande
e infinitamente piccolo;
nessuna differenza,
poiché le definizioni sono scomparse
e non si vedono più limiti.
Così per l’Essere ed il non Essere.
non perder tempo in dubbi
e discussioni che non hanno
niente a che fare con questo.»
(Hsin Hsin Ming)
“Le tue sensazioni di mancanza possono trasformarsi in sensazioni di “disponibilità” se dentro di te crei uno spazio vuoto
per accogliere ciò che desideri.” (R. Schache)
”E la sua invenzione specifica è stata quella di introdurre discretamente, infantilmente, un po’ di Vuoto nella musica, e perciò nella nostra vita. Ora, quel Vuoto ha per noi tutti una funzione salutare, come una brezza per un asfittico. Perchè una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del Pieno: la malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vorticare di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che emozioni” (R. Calasso – La follia che viene dalle ninfe)
«Dobbiamo imparare a farci invadere dal vuoto»
(Raffaele Morelli – Non siamo nati per soffrire, p.16)
«IL buio, il vuoto, il nulla: sono metafore di una dimensione ancestrale in cui la vita si ri-partorisce. Se si accoglie il vuoto che gli abbandoni ci portano, gli addii sono fonti di progresso, di rinascita, di nuove occasioni di vita. Se resistiamo, se rimpiangiamo, ci tormenteremo per anni. Si, bisogna toccare il fondo per ritornare a vivere.
Scrive James Hillman: “[…] quando ci si sente disorientati e in balìa degli eventi; quando ci si sente vinti, schiacciati, al tappeto […] solo allora qualcosa si muove […], la violenza, il potere e l’oppressione non possono essere affrontati direttamente. Si può progredire solo quando hanno iniziato a cedere internamente, quando la psiche stessa ne erode le fondamenta e dà spazio alla fantasia.” [J.Hillman – Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo.]» (Raffaele Morelli – Ciascuno è perfetto, Mondadori 2004, p.93)
«Sono come il vento che entra nella mia interiorità. Non c’è che il desiderio: so che già questo è una terapia. I Mistici facevano così e anche la fisica moderna da tempo sostiene che il concetto di vuoto vada totalmente rivisitato, che non ci sia niente di più pieno di energia del cosiddetto “spazio vuoto”. “Il vuoto in sé” scrive Danah Zohar, psicologa e studiosa di fisica, “può essere concepito come un ‘Campo di campi’ o, più poeticamente, come un mare di potenzialità. Esso non contiene particelle e tuttavia tutte le particelle sorgono come eccitazioni […] al suo interno. […] Il vuoto è il substrato di tutto ciò che è.” [Danah Zohar – L’Io ritrovato, Sperlink & Kupfer, Milano 1990, p.263].
(Raffaele Morelli – Ciascuno è perfetto, Mondadori 2004, p.109)
«Quando ci addentriamo in questa solitudine il Dio comincia a vivere.
[…] Quando abbracci il tuo Sé, ti parrà che il mondo sia divenuto freddo e vuoto. In questo vuoto i trasferisce il Dio che ha da venire. Quando sei nella tua solitudine e tutto lo spazio intorno a te è diventato freddo e infinito, ti sei allontanato dagli uomini e al tempo stesso sei giunto a loro vicino come mai era capitato. […] Ora però, quando ti trovi nella solitudine, il tuo Dio ti conduce al Dio degli altri e per questo tramite ala vera vicinanza: a essere vicino al Sé nell’Altro.» (C.G.Jung – Libro Rosso, p.246)
«Sentii che mi stavo immergendo in quell’acqua fresca e seppi che il viaggio attraverso il dolore finiva in un vuoto assoluto. Sciogliendomi ebbi la rivelazione che quel vuoto è pieno di tutto ciò che contiene l’universo. È nulla e tutto nello stesso tempo. Luce sacramentale e oscurità insondabile. Sono il vuoto, sono tutto ciò che esiste, sono in ogni foglia del bosco, in ogni goccia di rugiada, in ogni particella di cenere che l’acqua trascina via, sono Paula e sono anche me stessa, sono nulla e tutto il resto in questa vita e in altre vite, immortale»
(Isabel Allende, Paula, traduzione di Gianni Guadalupi, Feltrinelli
DA Blog Jung Italia https://carljungitalia.wordpress.com
Mar 6, 2015 | IPNOSI, PILLOLE DI RIFLESSIONE
La manipolazione psicologica è un tipo di influenza sociale, finalizzata a cambiare la percezione o il comportamento degli altri, usando schemi e metodi subdoli ed ingannevoli, che possono anche sfociare nell’abuso sia psicologico, che fisico. Il fine ultimo perseguito dal manipolatore è la soddisfazione dei propri interessi, di norma a spese degli altri.
La manipolazione si manifesta attraverso una comunicazione ambigua, incoerente, passivo-aggressiva, in cui il manipolatore può usare uno o più dei seguenti meccanismi nei confronti della sua “vittima”:
- Farla sentire in colpa: consiste nel rigirare le parole dell’altro per farlo sentire in torto;
- Aggressività passiva: utilizza modalità subdole per annullare ciò che l’altro fa o pensa, senza affrontare la questione direttamente (es: boicottare un’iniziativa che avevano detto di sostenere);
- Negazione di fatti e/o parole avvenute realmente: il manipolatore nega cose che la vittima ricorda bene, al fine di difendersi, fino a far dubitare l’altro di se stesso (effetto gaslight);
- Accentramento dell’attenzione su se stessi: l’attenzione deve essere sempre puntata su di loro, non ascoltano l’altro e, se egli reclama un ruolo, lo accusano di egoismo;
- Attribuzione delle responsabilità all’esterno (locus of control esterno): sono sempre gli altri a sbagliare;
- Critiche continue all’altro, per indebolirlo e ferirlo, che consistono in offese, insulti ed esagerazioni, usate nel bel mezzo di una lite o di una discussione, per cercare di uscirne vincenti, e che, a volte, vengono mosse quando l’altro non può rispondere (in pubblico ad esempio, o al cinema ecc.)
Inoltre, secondo alcuni studiosi, il manipolatore farebbe leva su alcuni punti deboli nella personalità dell’altro, di modo da poterne condizionare il comportamento:
- Ingenuità: la persona tende a negare o a non accettare di poter essere vittime di una manipolazione;
- Fiducia ed autostima scarse;
- Dipendenza, soprattutto affettiva, dagli altri (quindi, l’incapacità di dire no);
- Bisogno di approvazione da parte degli altri;
- Impulsività;
- Solitudine;
- Eccessiva influenzabilità o impressionabilità;
- Masochismo;
- Età avanzata.
Questi autori, inoltre, hanno constatato che l’efficacia dei manipolatori patologici non è determinata tanto dalle tecniche, quanto piuttosto dalla particolare attenzione che essi dedicano ad osservare e meditare sulle vulnerabilità psicologiche delle altre persone, in quanto potenziali vittime: infatti, il fulcro del lor potere risiede nella perfetta complementarietà tra la vulnerabilità psicologica della vittima e la relativa tecnica da essi scelta.
Infine, da quanto descritto dagli esperti nel campo, si possono individuare diverse tipologie di manipolatore, per cui c’è:
- il cybervampiro: usa la chat o i social network per contattare le persone, le inonda di complimenti e le lusinga, instaurando un rapporto di dipendenza, attraverso ripetuti contatti telefonici o lunghe conversazioni via chat, ma evitando scrupolosamente ogni incontro dal vivo.
- il mentore: appare sicuro di se’, informato su tutto, giudica e valuta ogni argomento e non esita a farsi forte dei propri titoli di studio e della cultura che lo caratterizza. E’ incapace di instaurare un dialogo perché’ detesta essere contraddetto, assumendo un atteggiamento arrogante e cinico.
- il bugiardo: tende ad instaurare una relazione di coppia esclusiva per isolare il partner da amici e parenti, preferisce domandare e raccontare poco di se’. Nei rapporti scompare per lunghi periodi, per poi ricomparire improvvisamente.
- il salvatore: è una figura di riferimento perché’ ricorda alla vittima una persona familiare, è empatico ed autorevole, alterna momenti in cui è presente ed affidabile ad altri in cui è indifferente e violento a livello psicologico.
- il parassita: appare debole e bisognoso di aiuto, cerca partner benestanti. Ha come obiettivo quello di creare una dipendenza sessuale al fine di tenere la sua vittima in pugno.
- l’altruista: è apparentemente disponibile ad aiutare la propria vittima, racconta con facilità la propria vita ed organizza con frequenza incontri a cui non tollera un rifiuto.
- la finta vittima: vede sempre tutto nero, il pessimismo è il suo tratto distintivo, si sente incompreso e tende ad instaurare relazioni esclusive con la vittima, rispetto alla quale non mostra alcun interesse autentico se non per catalizzare la sua attenzione verso di se’.
- il buon padre: assume toni paternalistici, dà l’impressione che il benessere del partner gli stia veramente a cuore. Parla spesso dei suoi problemi con gli amici, ma ignora i loro consigli e non ha alcun interesse a definire piani di vita precisi con il proprio partner.
- il dipendente: appare sensibile e bisognoso di rassicurazioni, mostra un continuo conflitto con la famiglia di origine, è malinconico e solitario, crea situazioni in cui tutti si preoccupano per lui/lei. Il suo umore è instabile, tanto che spesso scompare nei rapporti ed adotta comportamenti compulsivi ed inspiegabili.
- il misterioso: parla molto di se’ ed è poco interessato alla vita altrui, estremamente attento al suo apparire, pretende che chi lo circonda sia sempre disponibile, mentre lui/lei non ricambia tale disponibilità. È incapace di instaurare rapporti di fiducia, mostra manie di persecuzione e tratti ossessivi.
Molte persone non si accorgono di essere manipolate, anche se possono avvertire un’ansia ed un disagio crescenti quando sono con una certa persona. In genere, all’inizio tendono a credere alle spiegazioni e giustificano il comportamento del manipolatore, a causa di un bisogno intrinseco di approvazione da parte sua. Questo processo, però, va a progredire lentamente, fino alla possibilità che, pur di non dover rinunciare al rapporto e di non deludere il manipolatore, l’altro finisce col negare il proprio punto di vista e col sottomettere il proprio senso della realtà a quello del primo.
In ogni caso, comunque, ci sono dei segnali, per la vittima di manipolazione, che possono indicarle che probabilmente c’è questo processo in atto:
- Incubi o sogni inquietanti ricorrenti;
- Scarsa fiducia nel proprio senso della realtà;
- Frequente sensazione di sconcerto o confusione;
- Incapacità a ricordare i dettagli delle discussioni con il manipolatore;
- Sintomi ansiosi: disturbi gastrici, tachicardia, senso di costrizione al petto, attacchi di panico;
- Frustrazione;
- Timore o agitazione in presenza del manipolatore;
- Sforzo per convincere gli altri e, soprattutto, se stessi, che il rapporto con il manipolatore va bene;
- Sensazione di avere compromesse la propria integrità e dignità;
- Impossibilità di provare gioia e soddisfazione nella propria vita;
- Tristezza, fino alla depressione;
- Rabbia.
Bibliografia:
- Maldonato M., Dizionario di Scienze Psicologiche, Edizioni Simone.
- Mammoliti C., Il manipolatore affettivo e le sue maschere, Ed. Sonda.
(A cura della dott.ssa Alice Fusella)
Dic 16, 2014 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, IPNOSI, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Il movimento Terra è associato al sistema funzionale di Milza e al pensiero.
Il movimento Terra
La Terra all’interno dei cinque movimenti occupa un ruolo particolare. Se parliamo di cinque movimenti il più delle volte avremo in mente un loro ordine circolare, secondo il quale ognuno dei cinque movimenti nasce da quello che lo precede e genera il movimento successivo. Secondo questo modello la Terra segue il Fuoco ed è seguita dal Metallo. Ma la filosofia cinese conosce anche un altro modello dei cinque movimenti, secondo il quale la Terra si trova al centro ed i restanti quattro movimenti in un ordine quadrato occupano ognuno un punto cardinale: l’Acqua il nord, il Legno l’est, il Fuoco il sud e il Metallo l’ovest. Questa idea della Terra al centro si ritrova in molti ambiti della medicina cinese, per esempio nella denominazione dei sistemi funzionali di Stomaco e Milza come il “centro” oppure nel ruolo centrale del sapore dolce nella dietetica.
Il fatto che questi due modelli differenti dei cinque movimenti (chiamiamoli “5″ e “4+1″) possano in contesti diversi coesistere ed alternarsi in modo del tutto paritario, potrebbe forse irritare chi si avvicina alla medicina cinese. In realtà la filosofia cinese non presume, che questi modelli filosofici possiedano una qualche verità assoluta. Essi sono veri solo e fino a quando ci sono utili a spiegare un fenomeno osservato o illustrare una legge della natura. Possiamo quindi permetterci di cambiarli secondo le nostre necessità, proprio come due paia di scarpe, ed è quello che faremo anche in questo articolo.
Un contesto, in cui ambedue i modelli dei cinque movimenti possono essere utilizzati, sono le quattro stagioni. Secondo il modello dei cinque movimenti in fila uno dopo l’altro (“modello 5″) la Terra corrisponde alla tarda estate, ossia quelle settimane, in cui molti frutti diventano dolci e l’estate trattiene il respiro prima di cedere all’autunno. Secondo il secondo modello invece (“4+1″) il movimento della Terra rappresenta il centro dell’anno, un perno immaginario, intorno al quale l’anno si sviluppa e al quale torna dopo ognuna delle quattro stagioni. La Terra in questo caso viene associata con periodi di passaggio di due settimane, che separano ognuna delle stagioni da quella che la succede.
Pensare, una delle “emozioni”
E ora arriviamo al nostro tema principale: le emozioni. L’emozione associata al movimento Terra può essere tradotta come pensare, riflettere oppure – nella forma patologica – rimuginare. Entrano nella sfera d’influenza della Terra anche la ragione e lo studio. Che strano, molti penseranno, che in medicina cinese viene classificato come “emozione” qualcosa che secondo i nostri parametri occidentali rappresenta praticamente l’esatto contrario dell’emotività. Ma in questo ambito “emozione” descrive l’espressione e il movimento del qi dei singoli sistemi funzionali. Pensare è la facoltà emotiva e l’espressione del sistema di Milza, proprio come sapersi prendere il proprio spazio è l’espressione emotiva del Fegato.
Pensare in modo eccessivo indeblisce la Milza
Il collegamento tra il pensare e la Milza si rispecchia molto concretamente nel fatto che per pensare abbiamo bisogno del qi e ne consumiamo. Oggigiorno sapiamo, che il cervello per il suo approvvigionamento energetico dipende dalla glicemia. Un livello glicemico stabile è di fondamentale importanza per un buon funzionamento del cervello. Secondo la MTC mettere a disposizione energia sotto forma di glicemia e mantenerla costante nelle situazioni normali fa parte dei compiti del sistema di Milza (in situazioni estreme è aiutata dal sistema di Rene). E noi quando pensiamo molto ci accorgiamo dell’influsso debilitante sulla Milza perchè ci sentiamo stanchi e a volte ci viene appetito di qualcosa di dolce, segni questi di una debolezza passeggera del qi e in modo particolare del qi di Milza.
Se i periodi di pensiero eccessivo durano per troppo tempo, da questa debolezza passeggera può generare un deficit di qi di Milza duraturo. In altre parole: il pensiero eccessivo indebolisce la Milza. L’effetto nocivo comprende oltre all’indebolimento del qi Milza anche il favorimento di una sua stagnazione. In medicina cinese si dice: il pensiero eccessivo annoda il qi. In seguito il sistema funzionale di Milza non riesce più a svolgere bene le sue funzioni e tra le altre cose ne risente anche la digestione. Questi sono disturbi osservabili nei studenti molto diligenti o generalmente nelle persone intellettuali. Tuttavia l’esito della riflessione non influenza l’effetto negativo di un pensiero eccessivo sulla salute. Anche e soprattutto l’abitudine di rimuginare senza meta e senza esito nuoce alla Milza.
Pensare e digerire
Se la Milza è a sua volta debole, in deficit di qi oppure bloccata da un accumulo di Umidità, la facoltà di pensare può essere ridotta. La persona ovviamente non è per questo meno intelligente, ma riesce a concentrarsi male e per poco tempo, percepisce il lavoro mentale come molto stancante e i suoi pensieri raramente raggiungono la chiarezza necessaria, rimanendo piuttosto sfocati e confusi. Anche l’abitudine di rimuginare può essere la conseguenza di una debolezza del sistema di Milza. Sembra come se la Milza non avesse la forza di uscire da guazzabuglio di pensieri iniziati per poterne pensare uno fino alla fine. Per poter pensare bene quindi è necessario che ci alimentiamo bene. Una colazione che tonifichi il qi per esempio molte volte sarebbe più importante per una carriera scolastica di tante ore di ripetizione.
Si riesce a comprendere bene questo tipo di debolezza immaginandosi la dinamica della Milza nell’atto di pensare. A differenza delle altre emozioni principali nella medicina cinese, le quali si manifestano con movimenti percettibili e a volte anche ben visibili, la dinamica del pensare si svolge all’interno di uno spazio più limitato. Per capire questa dinamica possiamo pensare a come i due sistemi del centro, Milza e Stomaco, collaborano nella digestione: la Milza deve estrarre da cibi e bevande le parti pure e portarle verso l’alto, dove verranno trasformate in qi e Sangue; lo Stomaco invece dirige verso il basso e verso la loro evacuazione le parti impure. Questo gioco d’insieme di forze ascendenti e discendenti rappresenta il nocciolo stesso del meccanismo del qi, ossia di quell’insieme ordinato e armonico di tutti i sistemi funzionali. Ora possiamo immaginarci, che la funzione della Milza nell’atto di pensare assomigli molto a questa sua funzione digerente. Informazioni e impressioni vengono da parte della Milza letteralmente “digerite”: sono ordinate e divise, l’utile verrà memorizzato e acquisito, l’inutile invece sarà messo da parte e dimenticato. Una Milza debole anche sul livello del pensiero non è in grado di dividere il puro dall’impuro, l’utile dall’inutile: i pensieri si rincorrono in un cerchio.
Gli anni della maturità
La fase di vita associata al movimento Terra potrebbe essere definita come gli anni della maturità. Inizio e fine di questo periodo della vita dipendono più da fattori sociali che da fattori biologici, quindi è impossibilie inquadrarli in modo universale. Comunque si tratta di anni, durante i quali nella maggior parte delle vite si fa sentire una certa stabilità: una relazione fissa, un domicilio fisso, un lavoro fisso.
Un tema centrale durante questo periodo della vita è il nutrire, in stretta risonanza con i sistemi di Milza e Stomaco. Mentre i rapporti con i partner durante la fase del Fuoco sono caratterizzati fortemente da entusiasmo e innamoramento, durante gli anni della maturità s’incontrano più rapporti basati su fiducia, senso di responsabilità e un disegno di vita (ragionevole) comune. Spesso si tratta di anni, in cui due generazioni dipendono da noi: i genitori man mano più anziani e i propri figli. Anche in questo senso sono richiesti cura, affidabilità e responsabilità, tutte virtù associate alla Terra. Soltanto dopo i lunghi anni della maturità ci allontaneremo lentamente e passo dopo passo da questa responsabilità, durante il periodo associato al movimento del Metallo.
Karin Wallnofer – la via cinese alla salute